di Roberto Pecorale
L’universo sonoro di Håkon Gebhardt è in continua espansione: un caleidoscopio musicale che spazia, senza preclusione di genere alcuno, tra decine di album vissuti in qualità di musicista, produttore, arrangiatore, tecnico del suono e autore di colonne sonore. In occasione dell’uscita del suo nuovo lavoro solista per Apollon Records “GEB HEART”, siamo andati a trovarlo nel suo Sottomarino fiorentino, il Das Boot Studio.
Raccontaci del disco, in quali circostanze è nato?
Abbiamo iniziato alcuni anni fa, nel mezzo del trasferimento da Trondheim a Firenze. Avevo portato qui un po’ di strumenti, in quel periodo dovevo lavorare a qualche colonna sonora, avevo tante piccole idee, ma non ho mai avuto il tempo per svilupparle perché sono stati anni molto impegnativi per noi: il trasloco dello studio a Firenze, l’inizio di una nuova vita, imparare una lingua, prendere la patente, sistemare la casa e lo studio. E quando eravamo quasi pronti per partire è scoppiata la pandemia.
Pensi che la situazione pandemica trascorsa abbia in qualche modo influito sul processo creativo?
La pandemia è stata come un catalizzatore che mi ha permesso di riuscire a sistemare queste idee, mi sono messo da solo in studio per provare a mettere in ordine tutti questi piccoli pezzi che erano sparsi dappertutto. Siamo stati fortunati perché in quel momento avere la possibilità di lavorare a casa era molto tranquillizzante. Quando lavori con la creatività molte volte può capitare di picchiare contro un muro, senza riuscire a trovare la soluzione giusta o il modo per andare avanti. Senti che c’è qualcosa, lo sai, ma non trovi la chiave. In questi momenti andavo in giardino a fare dei lavoretti e bang!, finalmente riuscivo a vedere l’idea che cercavo e potevo rientrare per continuare il lavoro.
Il lockdown ha reso possibile avere tutto questo tempo a disposizione: i gruppi che dovevano venire qui a registrare non sono venuti, e io finalmente ho potuto mettere insieme tutte queste idee. Per me è anche molto stressante avere tutte queste idee che girano dappertutto, è come se non avessi mai pace, di notte mentre stai cercando di dormire inizi a pensare a questa rima, o a una piccola linea di chitarra. Ho lavorato un sacco per trovare la modalità giusta per tutte le canzoni, il disco è basato su canzoni e per me le canzoni sono importanti, funzionano anche se le suono solo con chitarra e voce, non hanno bisogno di grandi arrangiamenti. Ad ogni modo avere tempo per completare queste idee è stato molto bello.
Quali ascolti ti hanno più accompagnato nella registrazione delle canzoni?
Devo dire che quasi mai ascolto musica, mi piace fare la musica, la musica che ho ascoltato è quella che Marì (Simonelli) mi ha fatto sentire, devo dire tanto Nick Cave.
Comunque uno dei miei gruppi preferiti sono stati i Residents, perché fanno antimusica, odio ascoltare musica che sia pura esibizione tecnica, quella musica non mi coinvolge.
È il tuo primo album composto interamente a Firenze, che rapporto hai con la città?
Mi sento a casa qui a Firenze, veramente, perché non è troppo grande, è possibile andare dappertutto a piedi o in bici, e all’inizio ho sempre trovato persone disponibili ad aiutarmi, quando non sapevo ancora esprimermi bene con la lingua.
Pensa, durante un’intervista che mi fecero nel 1996 mi venne chiesto cosa avrei fatto nel futuro. Risposi che in 5 anni sarei stato ad Amsterdam a lavorare su colonne sonore per cortometraggi, e che nel giro di 10 anni mi sarei trasferito in Italia. Ci ho messo un po’ più di tempo per arrivare, ma alla fine eccomi qui.
Anche coi Motorpsycho qui in Italia ci siamo sempre sentiti a casa, talvolta nei club poteva succedere che l’impianto non funzionasse bene, mancava la corrente, ma la gente era così aperta e disponibile ad aiutarti, e per noi alla fine lasciare questo paese era sempre triste. Le persone venivano a salutarci regalandoci dei tiramisù da portare in Norvegia.
Ad ogni modo l’Italia è sempre stata una grande attrazione per me, per cui sono stato molto fortunato a incontrare Marì quando era in vacanza a Trondheim, dopo di che è stato facile prendere questa decisione.
Il video che presenta il primo singolo Breakup Breakdown, interamente realizzato con scatti fotografici, senza animazione digitale, è un capolavoro di artigianato e di manualità: penso sia un’ottima sintesi della tua arte.
Lavorare con il collage mi è sempre piaciuto fin da giovane. Mia madre avrebbe voluto essere un’artista, ma non ha potuto perché doveva prendersi cura dei bambini. Quando aveva tempo di pomeriggio mi portava alle scuole d’arte per disegnare, forse anche per questo motivo ho sempre avuto tante idee visualizzate nella mente. E quando vedo qualcosa penso a come realizzarla, a come poterla migliorare nel mio modo, nel cosiddetto Geb way.
Ho iniziato a lavorare alla copertina riprendendo il lavoro di collage. Qui vicino c’era un’edicola chiusa con tanti vecchi poster, così li ho presi e ho cominciato a tagliare qualche pezzo per vedere cosa succedeva. Quando ho realizzato la copertina volevo andare avanti, era bello essere dentro un mondo composto da questi frammenti. Così li ho sistemati e muovendoli poco a poco ho scattato 10 foto di fila, ho provato a guardare sul telefono come scorrevano e ho trovato i movimenti interessanti. Inizialmente pensavo che 300 foto sarebbero bastate per completare il video. Ne ho poi mandate 150 a un amico in Portogallo che mi avrebbe aiutato a montarle, ben presto però mi sono reso conto che non sarebbero state sufficienti, e alla fine ne ho fatte 3500: un lavoro da pazzi durato quasi 4 mesi, tutti i giorni a fare foto e nuovi collage con riviste e cataloghi. In pratica ho trascorso la primavera chiuso in studio con forbici e colla.
Il tema del collage ritorna anche nella musica: come rompere qualcosa con il tentativo di ricostruirlo da capo dandogli una nuova forma musicale, in un processo di continua destrutturazione e ricomposizione. Come il testo del brano stesso, Breakup Brekdown, in cui ci sono tanti giochi di parole che si muovono sugli opposti up/down e parla della diversità di una coppia, di due persone che non vanno bene insieme.
Anche i testi vengono fuori come un collage, ad esempio quello di None of this is mine è ispirato dal ricordo di un amico morto recentemente, il cantante dei Turbonegro (Hank Von Hell), e ho scritto qualche verso. Nella scrittura dei testi Marì mi aiuta a dare un senso alle cose, mentre io mi muovo più attraverso i suoni, due approcci diversi che cercano di completarsi.
I testi sono un po’ surrealisti: non si tratta di cose precise, ma come avviene per tutte le espressioni artistiche ognuno può farsi un quadro nella propria mente, senza bisogno di comprendere il senso in modo perfetto, perché non c’è un unico significato giusto.
Riprenderai l’attività live?
Ho tanta voglia, avendo suonato tutte le parti tranne quelle di basso, curate da Marì, andrebbe messa su una band. Ma le canzoni funzionano anche solo con chitarra e voce, vedremo.
Se dovessi pensare a una collaborazione da sogno, il primo nome che ti viene in mente sarebbe?
Mike Patton! Anche se talvolta fa cose molto dure e pesanti penso sia un’anima libera e sensibile. Perché mi piace pensare al di fuori della propria confort zone, e lui è molto più estremo di me, sarebbe fantastico avere la possibilità di fare qualcosa insieme. Poi magari se domani mi chiedessi la stessa cosa risponderei in modo diverso.