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Da Herat a Firenze è un colpo di tacco

calciatrici afgane

foto: Michele Lapini

di Aura Fico

Quando ero piccola odiavo lo sport, come molti bambini (spero). Il mio era un sentimento viscerale, come se fare la ruota o giocare a pallone fossero cose estremamente serie, addirittura gravi. Quando ho sentito la storia di cui sto per parlarvi, quella di Fatima, Susan e Maryam, le tre giocatrici afghane fuggite dall’occupazione talebana grazie allo sport, ho dovuto rivedere le mie opinioni.

Ma partiamo dall’inizio. Dopo la ritirata delle truppe statunitensi, nel maggio 2021, i Talebani hanno fatto nuovamente capolino sulla scena globale, lanciando attacco su vasta scala e occupando diverse aree dell’Afghanistan. La conseguente presa di Kabul ha messo la bandierina degli occupanti su tutto l’Afghanistan, innestandosi come un nido di ragno. Alle donne viene nuovamente vietato di praticare sport in pubblico, insieme ad altre attività, come ricevere un’istruzione di base, concorrere ad una qualsiasi carica pubblica o andare in bicicletta.

Da qui, la storia di Fatima, Susan e Maryam, tre giocatrici del Bastan Football Club, squadra diventata clandestina subito dopo il ritorno dell’occupazione. Il calcio è una passione pericolosa per le donne in Afghanistan, che le ha portate a fuggire dopo ripetute minacce nei loro confronti e quelli delle loro famiglie. L’uscita da Herat, il raggiungimento dell’unico aeroporto agibile a 850 chilometri di distanza, e la speranza di una nuova vita. Una missione quasi impossibile, che ha visto entrare in Italia le tre giocatrici, il loro allenatore Najibullah, e un bagaglio di storie che non verrà dimenticato facilmente.

Tutta l’operazione è stata organizzata dal COSPE, la ONG che si occupa dal 1983 di aiutare donne, bambine, persone LGBTIQA+, attivisti e molte altre figure a rischio in venticinque paesi del mondo, tra cui l’Afghanistan. Più organizzazioni si sono poi mobilitate per supportare questa causa, tra cui la Figc, l’Associazione Italiana Allenatori Calcio e l’Associazione Italiana Calciatori. Ma perché vietare lo sport? In primis lo sport comporta, dal punto di vista delle donne, riprendersi almeno in parte il diritto sul proprio corpo, ma soprattutto porta speranza. Che sia individuale o collettiva, l’attività sportiva valorizza le capacità soggettive, modifica il proprio aspetto, distoglie l’attenzione dai compiti considerati “obbligatori” di cui ogni donna dovrebbe sentire il peso sulle spalle.

Oltre al beneficio fisico è fondamentale evidenziare anche quello psicologico che la pratica porta con sé. In una condizione politica come quella in cui si trova l’Afghanistan adesso, la donna esiste in misura dell’uomo, non senza di esso. Provate anche solo ad immaginare, quanta paura possono fare delle donne che giocano a calcio liberamente, che parlano, si confrontano e legano tra loro, come sorelle. Ad oggi Fatima, Susan e Maryam giocano per il Centro Storico Lebowski, un caposaldo della tradizione sportiva fiorentina, una realtà che, cito, “vuole rompere con le condizioni esistenti e portare cambiamento, cercando di comunicare attraverso le azioni prodotte”. Purtroppo, anche in questo caso la possibilità di passare come white saviour è sempre dietro l’angolo, per questo lo stesso Lebowski ha aperto una discussione pubblica sul ruolo dell’Occidente nei paesi come l’Afghanistan.

Grazie Fatima, grazie Susan, grazie Maryam e grazie a tutte le persone che ogni giorno lottano contro enormi soffitti di cristallo, discriminazioni di ogni tipo ed odio senza limiti, dimostrando ancora una volta che il vero pericolo si cela negli occhi di chi guarda.

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