di Carlo Benedetti
Per prima cosa, il nome: “Caffè Fiorentino”, sconosciuto e utilizzato solo dai turisti. “Carmelo” piuttosto o, al limite, “da Carmelo”. C’era una spiegazione molto semplice al perché ci fossimo ogni sera: l’alcool costava meno che in qualsiasi altro bar del centro. Ma, allo stesso tempo, motivi imperscrutabili, lontanissimi dal calcolo economico ci tenevano lì, sera dopo sera, notte dopo notte. Via Ghibellina si svuota verso i viali, non sembra a cinquecento metri da Piazza Signoria. Conoscevamo tutti: anche da lontano, sapevamo già chi c’era osservando il colore dei cappotti, la disposizione dei corpi e il rumore che rimbombava sulle pareti. Bevevamo con rigore monacale americano e gin tonic. Ridevamo continuamente, non era mai abbastanza. Non ci siamo mai sentiti così soli come in quelle serate. Speravamo tutti che succedesse qualcosa: di innamorarci, di capire cosa fosse importante. Tiravamo fino alle tre, quattro del mattino, aspettando, stringendoci un po’ di più. E mai, nelle centinaia di serate passate appoggiati alle pietre grigie, ci sfiorava l’idea che fosse proprio quello il cuore di tutto. Solo Carmelo lo sapeva: una saggezza senza insegnamenti da impartire, inutile, dalla quale ricavava l’unica gioia possibile, quella del continuare, giorno dopo giorno, a servire drink decenti a prezzi modici, unica forma di preghiera laica. Ci svegliammo una mattina sulle sponde dell’Arno con due anziani pescatori che ci guardavano, ammasso di eskimo e jeans, e potrei giurare che, a denti stretti, uno sussurrasse: «Anche questo passerà».
Francesca Mattei, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, Pidgin, 2021 – 15€