Foto: Sofia Turrini

Storie

Mi chiamo Hulda e scrivo ancora

By Daniele Pasquini

December 23, 2021

Hulda è ebrea e italiana. Anche se è nata a Vienna, ha vissuto in Israele e ha studiato in Inghilterra alla London School of Economics. Ed è fiorentina, da più di 60 anni. Mezzo secolo in cui è stata corrispondente per l’Italia e per il Vaticano di Haaretz, uno dei più prestigiosi quotidiani israeliani.

Se fosse un’ora di lezione, la vita di Hulda Brewer Liberanome andrebbe raccontata in un corso di Storia. Ma a ben pensarci anche in uno di Lingue, e pure di Geografia.

I miei genitori vivevano in Israele, ma sono nata a Vienna nel ‘30. Uno studente ebreo-britannico venne assassinato a pochi passi da casa nostra, le autorità ordinarono l’evacuazione di una parte del quartiere. I parenti di mia madre erano in Austria e perciò lei andò a Vienna a partorire. Così sono nata in Europa, ma a sei mesi sono tornata a Gerusalemme (Vienna-Trieste in treno, poi in nave a Jaffa). Mia madre, i miei due fratelli e io ancora lattante”. 

Suo padre viveva in Israele dal 1910, quando ancora era una provincia turca. Uomo colto, insegnante, un idealista che faceva parte del gruppo di promotori della lingua ebraica, un idioma dalle radici antichissime ma non diffuso nell’uso quotidiano. Nel ’14 tornò a Vienna per le vacanze e ci rimase a causa dello scoppio della Grande Guerra. Poi il ritorno in Israele, dove tutta la famiglia, con brevi parentesi, resterà a vivere per sempre. Il padre di Hulda è anche il padre della geografia in lingua ebraica; il figlio ne ha seguito le orme, fondando due facoltà di geografia e curando gli atlanti tutt’ora in uso in Israele.

La madre di Hulda, laureata, insegnava in un liceo. Conosceva tedesco, inglese e francese: “Ma a casa parlavamo solo ebraico. Era una scelta identitaria, anche se per certe cose mancavano parole. Nella vita quotidiana non avevamo termini sufficienti per nominare le pentole in cucina, ci servivamo del tedesco”. Hulda a scrivere ha iniziato a scuola, senza fermarsi mai. Dalle piccole riviste a Globs, il maggior quotidiano economico israeliano.

E sfogliando l’atlante, l’arrivo a Firenze: Hulda è in Europa per un seminario e lì conosce un giovane assistente universitario italiano, che poi dopo diventerà suo marito. Si trasferisce a Firenze nel 1955, dopo il servizio di leva in Israele. “Firenze era diversa da ciò che conoscevo, tanto dal mio paese quanto dall’Inghilterra. Non parlavo ancora italiano e persone che sapevano altre lingue non ce n’erano. In generale, era impossibile trovare gente interessata a ciò che succedeva fuori Firenze”. 

Ma Hulda il suo spazio lo trova. Entra a far parte della redazione de Il Ponte, storica rivista fondata da Calamandrei. Collaborerà fino al ’67, quando lascerà in dissenso con le posizioni della redazione sulla questione israelo-palestinese. In quegli anni trasmette dalla RAI di Firenze un programma per la radio di stato australiana. E nel frattempo, dal ’55, inizia a collaborare con Haaretz: “Mio fratello era vicedirettore di un giornale in Israele, gli mandai un articolo sulla Torre di Pisa, scritto a mano, per posta. Mi disse che era molto buono, lo batté a macchina e lo spedì ad Haaretz. Lo pubblicarono. Poco più tardi gli mandai un articolo su Gronchi, e Hareetz pubblicò anche quello”.

Il direttore la nomina corrispondente dall’Italia e dalla Santa Sede, inizia formalmente un rapporto che durerà 51 anni.

Il giornalismo, riconosce Hulda, era diverso da quello di oggi: “i miei articoli ci mettevano 4-5 giorni ad arrivare per posta”. Ancora una volta, geografia e lingua trasformano il lavoro: “Io scrivevo in ebraico, trascrivevo in caratteri latini, andavo alla posta e un impiegato inviava il telegramma che la redazione doveva riportare di nuovo in ebraico”. Ma gli articoli più importanti li detta al telefono. Come la visita di Giovanni Paolo II al tempio ebraico di Roma, primo Papa della storia: un fatto cruciale, nei rapporti con Israele. 

Hulda scriverà poi soprattutto di cultura, mostre, arte, cinema. Tra i suoi ricordi più belli un’intensa intervista a Dario Fo, o l’incontro con il padre di Roberto Benigni, poco dopo gli Oscar. I suoi articoli sono comparsi sulle pagine culturali del venerdì fino alla metà degli anni 2000. “Poi la redazione è cambiata, cercavano un nuovo modo di fare giornalismo. L’ho accettato, i tempi cambiano e forse non mi sono saputa adattare”. Oggi l’informazione è fatta di flussi costanti, di notizie flash. “Lo capisco, ma ai nuovi giornalisti suggerirei una svegliata, di porsi e di porre domande. L’Italia del Dopoguerra è stata fatta da persone straordinarie, De Gasperi, Foà, Sereni, Nenni, Togliatti, Calamandrei, persone che hanno rifondato un paese che in larga parte, a partire dalla burocrazia, era rimasto fascista… Oggi l’Italia sta attraversando un nuovo declino. Se scrivessi per un quotidiano chiederei ai ragazzi: dove eri sabato scorso, quando c’erano i fascisti in piazza? Ti sei mobilitato? Per cosa lotti? ”.

Hulda non ha mai abbandonato la scrittura. “Certo che scrivo ancora”, confessa. Oggi è direttrice di Toscana Ebraica, bimestrale su cui pubblica regolarmente da 34 anni. Perché, come ripete, “Non si può mai smettere davvero”.