Se avete anche voi studiato alla facoltà di Architettura di Firenze, qualcuno, un giorno, mentre voi cercavate di disegnare la torre di Babele nel bel mezzo di quel vuoto cosmico chiamato piazza Ghiberti, vi avrà intimato: “Niente dovrà mai sovrastare la Cupola di Santa Maria del Fiore“, e la castrazione di quel momento ha segnato per sempre la vostra carriera prima universitaria e poi lavorativa.
Quando poi avete mollato i kebabbari a favore delle Buche (taverne underground e fighette, powering since Medioevo) un cameriere che studiava Architettura da 20 anni, servendovi il Peposo, vi avrà accennato che quel piatto avesse qualcosa a che fare con la cupola di Brunelleschi, dove magari ancora non era salito, come vuole tradizione, per paura di non laurearsi.
Si dice che le maestranze che misero in opera la cupola esattamente 600 anni fa, percepissero vino nel salario. Brunelleschi regolamentò che ci si dissetasse con vino annacquato con un terzo d’acqua, che non era la stessa di oggi, e che all’innalzarsi dell’altezza della cupola, avesse imposto il divieto di scendere dal ponteggio più di una volta al giorno e obbligato i muratori a portarsi un pasto da casa per non perdere tempo nel bighellonare in giro per osterie dove era facile ubriacarsi. Perché lavorare sospesi da terra alticci non doveva essere a norma nemmeno nei cantieri rinascimentali.
Così, nelle stesse fornaci dell’Impruneta dove si cuocevano i mattoni, nasceva la prima schiscetta, di stracotto di manzo irrorato di tanto pepe – da cui prende nome – e di quel vino che gli veniva vietato, per mascherare la freschezza andata delle carni e ingannare la voglia di ubriacarsi.