di Alessandro Cambi
Le facciate dei palazzi celano l’anima di chi li abita. Le persiane socchiuse, la luce nelle stanze, i balconi con i fiori e la signora che parla con le sue piante, anche se stentano a rispondere al dialogo. Ma ne va apprezzato l’intento e la dedizione. Purtroppo molte terrazze sono spoglie, prive di frequentazione, come se la vita domestica si fermasse sulla soglia del salotto. Durante la metà del XIX secolo alcuni urbanisti inglesi ipotizzarono il progetto di una città ideale chiamata “Green City”, una città-giardino con quartieri immersi nel verde, fondendo la vita urbana a quella della campagna. Una nuova concezione urbana ‘green’ potrebbe in qualche modo riprendere quelle utopie?
A Firenze
Stefano Mancuso, neurobiologo di prestigio mondiale, propone di tappezzare con le piante le nostre case, per contrastare e diminuire la percentuale di anidride carbonica che producono le nostre città. Il professore ha avviato un dialogo con il sindaco Dario Nardella, proponendo di far diventare Firenze il primo laboratorio verde del mondo.
Interi quartieri coperti da specie vegetali riuscirebbero ad abbassare i livelli di CO2, rendendo la città più sana per il corpo e per la nostra mente. Inoltre migliorerebbero il confort interno degli appartamenti e il raffrescamento naturale degli edifici, riducendo di conseguenza le emissioni dovute al riscaldamento e al condizionamento.
I “green roofs”
I “tetti verdi” sono una pratica ormai comune in molte città. Chicago ad esempio, da anni si è adoperata in questo intento ecosostenibile, diventando precorritrice dei cosiddetti green roofs, seguita poi da altre città americane. Ovviamente il linguaggio architettonico, diverso dalla nostra tradizione di coppi e tegole, permette una più facile applicazione della vegetazione sulla copertura. La presenza di tetti verdi all’interno delle aree cittadine mitiga gli effetti delle cosiddette isole di calore causate da palazzi, asfalto e veicoli. Di conseguenza migliora il microclima delle città, l’isolamento termico e acustico degli ambienti interni, filtra polveri e smog presenti nell’aria, dando inoltre la possibilità del recupero delle acque piovane.
La bioarchitettura come risposta
L’architettura è a servizio ora più che mai della sostenibilità, per progettare città ecologiche ed energeticamente autonome che possano combattere il surriscaldamento e l’inquinamento del pianeta. La bioarchitettura, infatti, non si limita all’impiego delle risorse naturali per trasformarle in energia pulita, ma miraad ottimizzare il rapporto tra l’edificio e il contesto, e di conseguenza migliora la qualità dell’habitat per il benessere psico-fisico di chi lo abita.
Esempi virtuosi nel mondo
Un esempio in Italia è il bosco verticale di Milano, progettato dall’architetto Stefano Boeri. Ci sono poi i giardini verticali di Patrick Blanc sparsi per il mondo; la Highline di New York, una linea ferroviaria dismessa riconvertita in parco urbano; il tetto verde dell’Academy of Sciences di Renzo Piano a San Francisco.
Senza approfondire tutte le questioni tecnologiche che andrebbero ovviamente prese in considerazione, ma se provassimo davvero a mettere a disposizione della vegetazione le facciate dei nostri palazzi? Nelle zone più periferiche, per tipologia edilizia i potenziali “test zero”, riusciremmo a sopperire anche la scarsa qualità architettonica.
In città, in mezzo al cemento e alla pietra, appaiono di tanto in tanto delle mosche bianche che provano a coprirsi di verde: un palazzo lungo viale Gramsci, un altro in via Masaccio, la torre medievale in Borgo San Jacopo (in foto). Proprio nelle scorse settimane è stato annunciato il titolo della prossima Biennale di Architettura (Venezia 2020) “How will we live together?”. Se mettessimo fioriere su tutte le finestre? Se facessimo salire rampicanti sulle facciate cieche dei palazzi? Se decorassimo di specie vegetali i volumi vuoti della città? Se riuscissimo a far profumare di bosco le nostre strade? E se di mattina i nostri quartieri luccicassero di rugiada?