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Sei domande a Josephine Foster

È Josephine Foster la prossima ospite della rassegna Is That Folk?, organizzata da Lungarno in collaborazione con La Chute associazione culturale.

La cantautrice statunitense, una delle voci più belle e celebrate del panorama alt-folk americano, si esibirà sul palco del Circolo Il Progresso il prossimo sabato 2 marzo, accompagnata da chitarra, piano e autoharp.

Presenterà il suo ultimo lavoro “Faithful Fairy Harmony”, uscito a novembre 2018. Per parlare del disco e della data fiorentina, l’abbiamo raggiunta per farle qualche domanda.

“Faithful Fairy Harmony”, come in generale i tuoi lavori, parte dal folk per esplorarne infinite declinazioni. Ma rispetto al passato mi è sembrato di sentire importanti cenni neoclassici e jazz. Come riesci a trovare questo equilibrio perfetto tra tutti questi generi?

Il disco è composto da molte canzoni scritte in momenti distinti degli ultimi anni. Visto che poi la lunghezza era quella di un doppio album, ho potuto espandere e includere più colori e sfaccettature, editando il tutto affinché diventasse un singolo disco.  Anche il mio rapporto con i musicisti con cui sto suonando si è approfondito nel corso degli ultimi anni; in più, adesso, sono in grado di suonare molti più strumenti e ciò mi ha consentito di arricchire ancora di più gli arrangiamenti. In pratica sono brani con un lasso di tempo più corposo, ci sono state più risorse – anche professionali – ed anch’io ho avuto una visione più chiara, dato che la mia esperienza in fase di registrazione mi ha regalato un po’ più di saggezza.

Il disco è piuttosto lungo per gli standard attuali del mercato discografico. È una scelta voluta o non riuscivi in qualche modo a staccarti da alcuni brani, come una sorta di senso dell’abbandono? Sul tuo profilo facebook ho visto che parli di quattro atti di ascolto, puoi spiegarci?

Sì, c’è qualcosa come una forma circolare che parte da una nascita verso la fine della stagione invernale (periodo in cui sono nata), per raccontare la vita stagione per stagione attraverso i quattri lati del disco, fino alla conclusione con morte e rinascita.

Nel disco ci sono preghiere e si parla di mortalità. La copertina però sembra mostrare la nascita dello spirito. Quale percorso dobbiamo intraprendere.

Sì, forse inconsciamente credo nella trasformazione dello spirito nella morte, non vedo la mortalità come un vicolo cieco, ma come un qualcosa di misterioso. Le preghiere sono un modo per inviare messaggi al di là del conosciuto, verso l’ignoto, e le canzoni sono un ottimo modo per pregare.

L’album è ricchissimo nei suoi arrangiamenti, a Firenze sarai da sola. Come farei a ricreare – ovviamente in parte – quell’atmosfera? Con che strumentazione ti presenti

La cosa meravigliosa di suonare in solo è quella di condividere, con il pubblico, la versione scarna delle canzoni, una versione molto vicina a quella intima con cui sono nate la prima volta. Oltre a questo, ho la massima libertà di cantare quando sono sola, perché non ci sono aspettative da parte di altri musicisti e posso adottare un approccio rubato o come meglio sento.

Qual è l’approccio verso la tua musica e in particolare verso questo tuo ultimo disco? Nel senso, una volta pubblicato e ormai fuori, sia nella sua edizione fisica che liquida, hai tempo e voglia di riascoltarti?

Ultimamente non ascolto affatto il disco, la cosa migliore è dimenticarlo e poi riscoprirlo dal vivo, come se non fossero nemmeno le mie canzoni, e concentrarmi su quella strana sensazione di alienazione che mi libera da un’identità troppo familiare.

È la prima volta che vieni a suonare a Firenze, vero? Sei mai venuta in città anche solo come turista?

Ci sono stato una volta, ma troppo poco.  Fu solo una splendida passeggiata in città. Spero questa volta di avere più tempo e di poter visitare alcuni dei vostri monumenti e palazzi storici.

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