ln ogni lessico culinario familiare, l’uovo – fresco di pollaio – al tegamino occupa un posto di rilievo. Lo dice una che ha una paura cane dalle galline, perché stupide e dagli atti plateali imprevedibili, due cose che insieme mi fanno terrore (vd. Governo del Cambiamento). Eppure “io so fare al massimo un uovo fritto” è una dichiarazione di indipendenza, solo un altro modo per dire “non so cucinare” =“non saprò aver cura di te”. Che a pensarci bene può voler anche dire il contrario: “abbi cura di me tapino che so fare a stento un uovo al tegamino”.
Quanti di voi, quando a fatica arrivavano con il naso ai fornelli, vedevano nel saper rompere un guscio d’uovo la libertà di azione in una cucina che poteva finalmente dichiararsi adult-free? Ma è nato prima l’uovo al tegamino o la pasta al burro? Ai trigliceridi l‘ardua sentenza.
Imparare a rompere un uovo significava automaticamente potersi proiettare in un universo di torte alla crema, carbonare e tiramisù. Un‘indipendenza alimentare che acquista molteplici sfaccettature gustative e che in cuor tuo ti sussurra che anche senza la mamma in casa non morirai mai di fame. Una coccola pop art che si compone di soli due colori di due cerchi concentrici, che fa sorridere gli occhi e canta alle orecchie.
Perché ditemi se esiste al mondo vibrazione più confortante di quella musica di vinili scratchati sul piatto, che fa solo l’albume quando sfrigola nell’olio caldo del tegamino. Il suono che fa il Tutto quando sta procedendo bene, che ti accarezza i capelli assicurandoti che nulla può andare storto almeno in questo breve lasso di tempo, che ha avuto inizio nell’aver centrato il tegamino e si concluderà in una sazietà arancio lucente terribilmente prossima.
testo e illustrazione di Marta Staulo