Ci sono dei giorni che sono normali, proprio normali. Questi giorni normali durante l’anno sono tantissimi, direi la maggior parte. Ed è durante questi giorni normali che sembrano accadere le cose più strane. Questo non perché le cose che accadono lo siano, strane, ma perché in questi giorni normali non succede talmente niente che anche la più piccola deviazione dall’ordinario assume in sé un significato rilevante, dal sapore quasi mistico. E quando succedono questi accadimenti imprevedibili ed estemporanei, il pensiero che si rivolge ad essi diventa un arrovellarsi che generalmente sfocia in “il caso non esiste”. Ciò che ci passa accanto e ci sfiora la spalla, catturando la nostra attenzione, lo riconduciamo alla sincronicità, ovvero che tra noi e il fatto vi è un legame di senso, ma che è puramente casuale.
Certi fenomeni che si manifestano sono in grado di rubarci alcuni minuti o anche diversi minuti ripetutamente durante l’arco della giornata, e poi della settimana, fino a mesi, talvolta anni. Succede di ripensare ad un avvenimento apparentemente irrilevante, ma che in qualche modo ha significato qualcosa, a posteriori. Come quando il filo di un ricamo decide inaspettatamente di intrecciarsi in maniera diversa dalla trama intessuta fino a quel momento, creando un piccolo nodo che ci costringe a spezzare con i denti il filo, per ricominciare da capo.
Ebbene. Era uno di quei giorni normali e mi svegliavo di corsa, facevo strabordare il caffè dalla moka mentre mi vestivo di corsa, e quando finivo di vestirmi di corsa ormai il caffè era uscito tutto dalla moka, non ne era rimasto più niente a parte un fondo imbevibile amaro, pastoso e bollente. Preparavo il pranzo da portarmi a lavoro, una scatoletta di tonno e una di ceci, come tutti i giorni. Anche i miei colleghi mi prendevano in giro, ma credo tuttora che avere dei punti fermi nella vita sia importante.
Mentre mi accingevo ad uscire di casa sento le voci dei vicini per le scale, così mi metto ad aspettare dietro la porta che apro lentamente con maestria, senza fare il minimo rumore finché non rimbomba per la tromba delle scale il ‘clak’ della serratura. Credo dovrebbe essere un diritto fondamentale dell’uomo quello di non salutare i dirimpettai, quello di uscire di casa, incrociare i loro sguardi e tirare dritto, senza sorrisi di circostanza, frasi di cortesia “Buongiorno, ah no no grazie faccio da sola, oh beh allora grazie mille, buona giornata” mentre il signore mi tiene la porta aperta per aiutarmi a portar fuori la bicicletta. Non riesco ad evitarli.
Correvo con la bici verso la fermata della tramvia alla Stazione per arrivare a Careggi, dove lavoro. Di solito l’ultima via che percorro prima della fermata è via dell’Albero, ogni giorno ci passo e rallento. Quando sono in via dell’Albero mi sembra di essere in un’altra città, in un altro continente. Più precisamente mi sembra di essere in Bangladesh, o meglio, mi sembra di essere in una via di una città del Bangladesh dove dei napoletani hanno aperto una friggitoria tipica e dove fanno pure la mozzarella in carrozza a due euro. In via dell’Albero nessuno sta fermo, tutti vanno via o arrivano con i trolley, nessuno compra le scarpe col tacco cinesi a 15 euro, quel negozio è sempre vuoto. In via dell’Albero c’è sempre la musica, si sente dal negozio dei parrucchieri in fondo alla strada, sembrano simpatici, salutano sempre tutti, ma poi chissà, si sa come vanno a finire queste cose, quando la gente saluta sempre dicono che non sia un buon segno.
Infine, salgo sulla tramvia.
L’effetto che mi fa, astronomicamente parlando, è quello della danza dei pianeti di Kubrick in “2001, Odissea nello spazio”. Come se il traffico, le macchine, definissero il senso del moto di rotazione della terra su se stessa, e la terra a sua volta diventasse un satellite che orbita intorno alla tramvia, non il contrario. Ma questi sono pensieri che faccio adesso in effetti, mentre racconto di questo accaduto.
La verità è che anche quel giorno salivo sulla tramvia come tutti i giorni, in silenzio, senza ascoltare la musica, e in qualche modo riuscivo a mettermi a sedere, avevo anche trovato posto accanto al finestrino, ma comunque mi veniva di fissare il punto in cui i due vagoni della tramvia si uniscono, perché è il punto in cui meglio si osservano i movimenti della tramvia, soprattutto quando va in salita e in discesa, mi piace guardarlo. Ed è stato poco dopo che eravamo partiti dalla Stazione, prima ancora di arrivare alla fermata della Fortezza che, con la coda dell’occhio, ho visto, ne sono certa, una macchina che era uscita dal traffico normale, e come un meteorite a tutta velocità aveva preso i binari della tramvia in contromano. Un vecchio col cappello, quella mattina, aveva deciso di brandire il suo sacchetto di plastica e partire per un viaggio interstellare.
Ed io, il caso non esiste, esiste la sincronicità.
di Lavinia Ferrone