“Ci saranno ancora grandi presidenti, ma non ci sarà più un’altra Camelot”. Così l’ex First Lady Jacqueline Kennedy contribuisce a creare il mito di Camelot nella presidenza Kennedy, accostando la figura del marito John Fitzgerald, 35° Presidente degli Stati Uniti d’America, a quella di Re Artù, entrambi protagonisti di una sorta di età dell’oro, interrotta bruscamente dalla loro prematura morte.
Natalie Portman, nel biopic diretto da Pablo Larraín, porta sul grande schermo la compostezza e il dolore della First Lady Jacqueline, nei giorni immediatamente successivi all’omicidio del marito, avvenuto nel 1963. Una narrazione tra passato e presente racconta le decisioni prese e le sensazioni provate dalla donna nel periodo più difficile della sua vita. Flashback intervallati da scene attuali in cui Jackie, con estrema commozione, ma netta lucidità, svela le sue confessioni più intime al giornalista Theodore H. White.
Impossibile non identificarsi con il personaggio, grazie anche al lavoro d’immedesimazione compiuto dalla Portman che, con una mimica facciale impercettibile ma densa di significato, i suoi gesti, il particolare accento e timbro vocale, ricorda perfettamente la First Lady passata alla storia per la sua eleganza e il suo savoir faire.
Non a caso in Jackie la macchina da presa si sofferma a lungo sul volto della protagonista con numerosi primi piani, atti a indagare i vari stati d’animo: dal dolore alla confusione e al turbamento. I momenti più drammatici e decisivi sono accompagnati da una melodia dai toni gravi, che sembra presagire un’altra catastrofe incombente, generando ancora più angoscia, in sintonia con Jacqueline.
Pablo Larraín dirige una pellicola intensamente introspettiva e intima, che indaga poco sul rapporto tra la coppia, concentrandosi maggiormente sulla figura di una donna intenzionata a perpetuare il ricordo del marito, andando contro le tipiche istituzioni americane, attente più ai fatti che al lato umano degli eventi.