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Marco, mi manchi

Aveva ragione lui.

E questo è talmente chiaro che non varrà la pena sottolinearlo di nuovo.

Ma Marco, che in realtà si chiamava Giacinto, non era solo ragione, ma tanto sentimento. Era più alto di me e da vecchio anche parecchio più grosso. Quel giorno lo aspettavo alla stazione di Firenze per portarlo non ricordo più dove. Insieme a lui c’erano due nostri amici. Entrambi sopra il metro e ottanta. Io avevo una splendida Micra. Viola. Guidai con le ginocchia in bocca. Lui, accanto a me, con le ginocchia in bocca e un sigaro. Dietro non so francamente come fecero. Pioveva e tra la condensa e il sigaro di Marco io non vedevo e pensavo: “Se adesso ci schiantiamo e c’ammazziamo avrò sulla coscienza di aver fatto fuori Pannella. Riuscirò dove nemmeno il regime è riuscito”. Ma non successe.

All’inizio mi dava sempre di “testa di cazzo”. E ci teneva a sottolinearlo ogni volta. “Ciuffoletti, tu. Tu sei una testa di cazzo, mi dispiace tanto per tuo padre”. Poi crebbi e ci fu modo di confrontarci in modo più aperto. E così mi promosse. “Caro Ciuffoletti, tu non sei più testa di cazzo. Adesso sei diventato stronzo, che è comunque un passo avanti”. In fin dei conti ne fui contento.

Ero cresciuto ascoltandolo alla radio fin da piccolissimo. Anche se poi magari mi distraevo e lui parlava di legalizzare la droga. Mi assopivo un po’, e quando mi riprendevo stava parlando di abolire la pena di morte nel mondo. Ho imparato più da lui che all’università.

Oggi lo pensavo. E ora posso dirlo. Mi manca. Mi manca tanto.

 

di Tommaso Ciuffoletti

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