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La crostata di fiche e ricotta

crostatafichesmall“Tutti hanno un trastulliolà”, cantava Fratel Coniglietto in I Racconti dello Zio Tom, film Disney del 1946 terribilmente sudista, dove trastulliolà era il termine coniato dai doppiatori del dopoguerra ad indicare un luogo dove basta andare per scoppiare di felicità. Il mio era un’altalena che mio nonno aveva montato sotto un albero di fico dietro casa. RIP mio nonno e RIP anche il fico.

E con il diffondersi dell’odore dei fichi che cadevano e marcivano ai piedi dell’altalena, RIP anche l’estate. L’odore dei fichi marci resta odore di maturità, di sveglia e di sto diventando grande lo sai che non mi va-aa-a. Di sicuro dovranno averlo pensato anche le antiche civiltà greco-giudaiche che popolavano il Mediterraneo, per attribuirgli nelle sacre scritture il nome di Albero della Conoscenza del Bene e del Male.

Forse fu appunto per una questione di ignoranza che una traduzione fonetica errata (malus= melo/cattivo e malum= male) ci tramanda dall’alba dei tempi che un serpente tentò Eva con una mela che però, come disegna anche Michelangelo nella Cappella Sistina, era in effetti un fico. Anzi, diciamola tutta, una fica. Perché la grammatica italiana, che riconosce genere maschile all’albero e quello femminile al frutto, castra la sessualità dirompente del fico per la volgarità che il volgere al femminile potrebbe esprimere, rendendolo frutto eccezionalmente di genere maschile. Ma per quanto possa ricordare uno scroto, una volta aperto la sua morfologia ci chiari-fica ogni riferimento sessuale agli organi riproduttivi della donna: ecco dipanarsi davanti ai nostri occhi l’Origine del Mondo di Courbet.

Il fico è un frutto che muore e cade se non fecondato, quasi come se la sua immaturità sentimentale lo porti ad un decesso solitario senza amore, un po’ come in di The Lobster (Yorgos Lanthimos, 2015). Sarà per questo che per esprimere una nullità indichiamo paragoni con i fichi secchi, che facciamo riferimento alla loro lussuria quasi gravida, così cara alle nature morte fiamminghe e napoletane, quando vogliamo intendere qualcosa di molto bello, o che gli anticipiamo una s privativa per indicare sfortuna (s-figa = senza fica).

Un potere iniziatico pregno di significati, già documentato dalle tradizioni pre-cristiane: le donne ne bevevano il latte e si frustavano con i rami chiedendo fertilità, Plutarco ci racconta che con il suo legno veniva scolpito il fallo portato in processione nei riti dedicati a Dioniso, albero sacro per i Misteri Eleusini, i cui frutti venivano donati a spose e schiavi per sancirne l’appartenenza ad una nuova famiglia.

Dall’alto della sua simbologia, l’inizio della triste sorte del fico/fica, bistrattato in mela e depotenziato, coincide con la favola di Eva che lo colse e che con le sue foglie si vestì dopo esser stata raccattata da Adamo fresco di sfanculamento da Lilith, prima vera donna (ormai nota solo agli astrologi) che non ne volle sapere di essergli sottomessa. Si vede che ad Adamo gli piacevano le finte ribelli, un po’ frikkettone ma non troppo, medio-woman il giusto, quella categoria da illo tempore trionfante sugli uomini in età da matrimonio e, si sa, alle medio-woman piacciono i (maschi) fichi. Un minuto di silenzio per quelle poracce che rilevano i nostri ex. Fu così che vide l’alba la storia infinita del dolore infernale di mestruazioni e parto e, non ultima, di dipendenza dagli zuccheri. Non c’avevi proprio nient’altro da fare Eva, mi sono sempre chiesta? Se c’avevi tanta voglia di far vedere quanto eri l’alternativa che non eri, avresti potuto prendere una posizione e mollarlo anche te Adamo. Ed invece come andò lo sappiamo tutti. Per riscattare tale saga di sanguinolenta atavica sottomissione direi di farci una crostata e di ridare finalmente alla fica la sua agognata dignità.

 

– pasta frolla: 250 g farina, 125 g burro, 100 g zucchero a velo, 2 tuorli, vaniglia, pizzico di sale
– crema: 250 ml panna fresca, 250 g ricotta, 50 g zucchero a velo
– copertura: 1 kg di fichi caramellati in 100 g zucchero semolato

 

illustrazioni e parole
di Marta Staulo

 

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