“Tutto quello che vedete lo devo agli spaghetti ”
Sofia Loren
Mangiare in spiaggia svestiti, ora che avrete perso quei 200 grammi che separavano la vostra scrivania dal mare, è un’attività che ci spoglia anche di quei pochi centimetri di lycra spolverati di sabbia. Documenta e giustifica in modo radiografico l’avvenuta stratificazione invernale dei nostri culoni e riesce a fornire quelle informazioni che dovrebbero dare i nostri abiti piegati sotto l’ombrellone.
Adesso ditemi che non studiate anche voi il carrello della spesa di chi vi è in fila davanti, perché io dal tipo di biscotti che stai comprando per farci colazione potrei partorirti un trattato di psicanalisi.
E grufolare l’impossibile in costume da bagno è alzare bandiera bianca a chi hai davanti a scannerizzarti ogni strabordamento e dirgli: “Pace, andrà meglio la prossima estate”.
Perché tra le forme di piacere che la nostra società accetta, nessuna contempla la mancanza di controllo.
Il sesso e le perversioni che lo colorano, ingorde quanto esse possano essere, occupano una sfera facile da mantenere privata di cui non resta traccia, se non nel vostro archivio whatsapp. Lo stesso non si può asserire del cibo, strumento sociale per antonomasia dove ogni caloria resta ad affollare le nostre maniglie dell’amore. Nessuno che non ti ami ti chiede: “Cosa hai mangiato oggi?”. Nessuna conoscenza può dirsi tale se non è battezzata dalla condivisione di forme di nutrizione e condivisa metabolizzazione. Ed è a tavola che gli osservatori più sottili sanno riconoscere appetiti di varia specie. Questo limite sottile tra piacere pubblico ed intimo in una città come Napoli perde definizione e disegna coreografie di spaghetti mangiati con le mani in piedi sulla tavola.
“Vedi Napoli e poi muori” – l’ha detta Goethe – e riassume lo stupro di una città che non sa contenersi, dove le case pervadono le strade con gli odori, i salotti e gli stendini, lo stereo e la TV ad alto volume ed i drammi personali divengono di urbana appropriazione. Il memento mori, oltre ad essere una delle opere più famose del museo archeologico della città, pervade ogni espressione della cultura partenopea nonché la cucina nelle sue espressioni più popolari. Il Vesuvio è sempre lì a ricordarti che potresti morire da un momento all’altro e che quindi non ha alcun senso tu debba preoccuparti di quel che sarà. Ancor meno pensare a dove andranno mai a posizionarsi le calorie di una frittata di pasta. Godere ora e senza ritegno, perché potrebbe non esserci alcun domani.
La cucina popolare napoletana non è sopravvivenza e diluizione, come avviene in Toscana. È esagerazione continua, dove la frugalità non è pervenuta neanche nei piatti di riciclo e, con lo stesso spirito, fa frittata di pasta ti violenta prima la bocca e poi il fegato, rientrando nella categoria di cose che sono più buone il giorno dopo, quando il bollore è sfumato, i sapori si calmano, gli umori si asciugano e la notte ha stabilizzato il tutto. Questa è la versione street, che si trova nelle friggitorie e nei bar del centro partenopeo, da non confondere con quella homemade, con uova, spesso ripiego di uno spaghetto al pomodoro finito male.
500 g bucatini, 100 g prosciutto cotto, 100 g piselli, 300 g provola, pepe e formaggio grattugiato besciamella: 1 l latte, 100 g di farina, 100g di burro, sale) pastella: 400 g farina, 600 ml acqua e sale e pangrattato
ricetta, parole e illustrazioni di Marta Staulo