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Papa don’t preach*

Perché un più efficace rapporto possa stabilirsi fra Firenze e la contemporaneità non

bisogna emettere continuamente sospiri di rimpianto e limitarsi all’esaltazione del passato”

Sandro Pertini, discorso per Firenze Capitale Europea della Cultura

Lo strillone de La Nazione parla di “lotteria in parrocchia” per i biglietti del Papa allo stadio. Papa Francesco, Firenze. Automatico un balzo indietro all’ottobre del 1986 quando parlare di un argentino allo stadio faceva pensare solo a Ramón Díaz e ci tenevamo stretti il traffico intorno al Duomo, ingrigito al cospetto degli Shearling che brillavano così come i cerchioni alle orecchie delle signore cotonate.

E proprio nell’ottobre del 1986 Papa Giovanni Paolo II sfrecciò, alla consueta velocità di crociera post-attentato, nell’allora rotabile Piazza Duomo, a bordo del suo carro santo marchiato Mercedes e protetto da una teca antiproiettile che lo faceva apparire più come un santo in processione che un pontefice in visita.

Ben lontano dai Ford Focus di Papa Francesco, Wojtila parcheggiò il SUV in Piazza della Signoria accolto da Massimo Bogiankino, sindaco – anch’egli musicista, ma socialista – di una città in pieno fermento per aver appena ricevuto il titolo di Capitale Europea della Cultura 1986, come riconoscimento del ruolo centrale nella cultura umanistica, seconda dopo Atene ’85 e prima di Amsterdam ’87, in un periodo storico in cui le capitali europee godevano ancora del fascino della distanza pre-lowcost.

C’erano pochi manifesti in giro, non esistevano le colonnine promozionali negli spartitraffico, quelli che adesso, nell’ottobre 2015, conservano i poster scoloriti di un’estate fiorentina vista, ma non percepita, comunicata, ma non vissuta, molto taggata, ma forse poco condivisa.

C’erano eccome le presenze, ma non mi riferisco a quelle turistiche, croce e delizia delle agenzie di promozione e dei residenti. Parlo dei Nomi, degli intellettuali, dei cantanti, degli spettacoli, delle letture, delle lectio magistralis, dei contributi che da tutta Europa e dal mondo confluivano a Firenze in un imbuto frenetico che stimolava chiunque a voler vedere, ascoltare, partecipare.

Nel 1986 il Papa fu solo una delle star che calcarono il lastricato del centro, per non contare i tanti politici impolverati che affollarono le griglierie del centro, da Mitterand ad Andreotti fino a Sandro Pertini, naturalmente. Fu l’anno delle passeggiate con Tarzan Boy dei Baltimora o Walk this Way di Run DMC nel walkman per andare ad ascoltare la Nona di Beethoven diretta da George Solti in omaggio a Italo Calvino, quando già le prime vicissitudini di un Teatro Comunale, impantanato tra politica e adeguamenti, lo resero inagibile per la rappresentazione del Maestro, che si esibì poi nel cortile di Palazzo Pitti. E ancora delle camminate a Fiesole per fare qualche domanda a Eugène Ionesco o della gita in città per guardare Jaco Pastorius in azione a Firenze. E poi delle file per il concerto degli Spandau Ballet o dei The Jesus and Mary Chains, degli Iron Maiden, sapendo che in città ci saranno Karl Popper, Harold Bloom e perfino Zubin Metha, già, nel 1986.

Basta uno spostamento indietro di ventinove anni, un numero anomalo quasi bisestile, per ritrovare una città che spesso oggi è solo descritta nei progetti futuri di chi si occupa di cultura e di contemporaneo. Un ritorno al futuro incompleto.

I sindaci per la pace si incontreranno a Firenze questo mese: Marylin Manson predicherà come un satana acciaccato, mentre Papa Francesco dirà messa allo Stadio Franchi, un luogo che già tante volte è stato consacrato da un altro argentino in tonaca viola.

Aspettiamo che anche la cultura si risvegli dal torpore, che ricominci a far schizzare l’equalizzatore nella nostra Firenze che tace almeno dal 2012 se non da prima, ben coscienti di un tendenza genetica e forse irreversibile: Firenze è così per professione, salta i passaggi e si siede sui successi, promette bene e non conclude l’opera, predica bene, ma poi, forse, razzola male.

di E. Bersellini

 

*Madonna,1986

 

 

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