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I’m calling you from my dreams. Matilde Davoli si racconta

di Valentina Messina

 

“Ci sei?” 

“Ti sto chiamando dai miei sogni

 

Una dolce minaccia, una piacevole rivelazione, una calda sorpresa. Questo è “I’m calling you from my dreams”, l’album d’esordio solista di Matilde Davoli – cantautrice salentina che Sabato 14 Novembre sarà sul palco del Glue – insieme ai C+C= Maxigross. I’m calling you from my dreams, immerso in atmosfere dream pop psichedeliche e boquet di synth, è un esordio luccicante, concepito tra l’Italia e Il Regno Unito, che brilla nelle giornate uggiose londinesi e si riflette senza ostacoli sul panorama musicale italiano, brillando di luce propria ovviamente. Per l’occasione abbiamo scambiato due chiacchiere con lei.

 

Hai progetti musicali importanti alle spalle, già attiva a Studiodavoli e Girl with the gun. È una nuova fase della tua vita, una svolta. Cos’è cambiato dal suonare in una band all’essere da sola? Tenendo presente che hai composto, mixato e prodotto il disco facendo tutto da te. Eri spaventata, lo sei? 

È sicuramente una fase nuova della mia vita,certo. Ho sempre militato in band e progetti musicali, ed è la prima volta che mi espongo in prima persona. Da un punto di vista tecnico non è cambiato molto, nel senso che anche prima scrivevo gran parte dei brani e poi registravo e mixavo tutto da sola, quindi diciamo che fin qui non c’è niente di nuovo. È stato invece totalmente strano non doversi confrontare con nessuno riguardo a scelte di arrangiamento o di finalizzazione delle canzoni, o non avere uno scambio di visione del pezzo che molto spesso ti porta a concepire le cose in maniera totalmente differente. Ho sempre lavorato insieme ad altre persone e ho sempre fatto scelte insieme a qualcuno, quindi è stato sicuramente “strano”. Ero forse un po’ spaventata all’inizio. Mettersi in gioco in prima persona è sempre diverso: in un certo senso la band fa sempre un po’ da scudo, gioie e dolori si condividono e ti senti protetto e al sicuro. Questa nuova situazione ha avuto un impatto molto forte su di me, ma allo stesso tempo l’ho vissuta come un’evoluzione assolutamente inevitabile del mio percorso musicale.

 

Pugliese di nascita, londinese d’adozione. Quanto di queste tue due personalità troviamo in I’m calling you from my dreams?

Beh, direi entrambe. Non sarei qui a parlare di quest’ album se non fosse per il mio background salentino e le mie esperienze a Londra. Questo disco parla ed è diretto a tutti i miei amici e alla mia famiglia che vivono giù a Lecce e che sono stati un pensiero costante durante questi anni in UK. È un album misto di sentimenti dove la nostalgia è padrona, non solo delle persone ma anche dei luoghi. Insieme a questo sentimento si mescola invece la vita di Londra piena di stimoli e di cose da fare, concerti da vedere, gente da conoscere, mentre ti ritrovi sempre a pensare a quelle persone straordinarie che invece sono rimaste lì a casa e che rischiano di lasciarsi vincere dalla “monotonia” della vita di provincia (per quanto Lecce possa risultare una bellissima eccezione nel sud Italia).

 

Il tuo disco suona molto internazionale, non sembra di un’italiana. Musicalmente parlando, la realtà londinese è senz’altro più stimolante di quella italiana? Perché?

Londra essenzialmente è la New York d’Europa. Londra, all’inizio, non riesci a capirla. Ti ci vuole un po’ di tempo, ma poi te ne innamori. E dopo che te ne innamori cominci a odiarla un po’(ah ah ah). Per un italiano l’impatto climatico a lungo andare è un problema molto difficile da digerire. Non tanto per il freddo (che poi così freddo non fa) quanto per la mancanza di sole: una cosa a cui noi non siamo assolutamente abituati. Ma aldilà di questo, se riesci a far finta di niente e a convincerti che la vita è bella anche senza quella strana palla gialla nel cielo, ti si apre un mondo di possibilità e di stimoli e ti rendi conto di quanto noi italiani siamo assolutamente lontani dalle attitudini mentali dei nordeuropei e di quanto lavoro ci sia ancora da fare da Milano a Palermo senza alcuna distinzione. Londra, come tantissime altre città al di fuori del nostro paese, è un luogo dove ti senti importante, utile e valorizzato. È un luogo che ti nobilita e che accende in te la scintilla della creatività. Un enorme peccato che per riuscire a trovare questo stato d’animo i ragazzi siano oggi costretti ad andare via dal posto (secondo me) più bello del mondo.

 

Dieci brani, 33 minuti che scorrono tra suoni sintetici miscelati a un’elettronica sognante. Nonostante l’intero disco sia il tuo bambino, qual è la canzone o le tracce a cui sei maggiormente affezionata? Sdoganiamo il fatto che anche i genitori hanno delle preferenze!

È una cosa che quasi mai viene chiesta ma, ovvio, c’è sempre un pezzo a cui si è particolarmente legati anche per motivi del tutto personali e indipendenti dalla bellezza di una canzone. Primo tra tutti c’è Tell Me What You See. Sono molto affezionata a questa canzone per diversi motivi, ma soprattutto perché corrisponde a un periodo particolare della mia vita in cui ho preso tante decisioni importanti. Diciamo che per me rappresenta una specie di momento catartico. Ricordo ancora con estremo piacere la sensazione che ho avuto dopo averla scritta, mi sentivo benissimo ed ero felice! E poi c’è Dust, che per me è un pezzo speciale. È stato amore a prima vista dal momento stesso in cui ho cominciato a suonare il riff di synth. Sono profondamente innamorata di questa canzone. I’m Calling You From My Dreams è un altro brano che per me rappresenta tante cose, ma soprattutto rappresenta e riassume il mio passato e presente musicale. Lo vedo come il punto d’incontro perfetto tra quello che ero e quello che sono diventata (musicalmente parlando) ed è proprio questo il motivo che mi ha spinto ad intitolare il disco in questo modo.

 

 

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