Primo film in concorso a Venezia72: Beast of no nation, diretto da Cary Fukunaga, acclamatissimo regista della prima serie di True Detective.
Ecco l’incontro che il regista e il giovanissimo protagonista Abraham Attah hanno avuto con i giornalisti presenti alla Mostra.
Perché ha deciso di raccontare proprio questa storia? Come ha scelto location e interpreti?
C.F. Ho studiato scienze politiche all’università, soprattutto i conflitti nei paesi del neo colonialismo, sono quindi molto consapevole di queste problematiche. Nel 2005 un amico mi ha regalato il libro di Bestie senza patria di Uzodinma Iweala ed ho deciso che era proprio questa la storia che volevo raccontare. Le ricerche che ho svolto in passato mi hanno aiutato a colmare alcune lacune e ad aggiungere dettagli.
Abraham Attah: Ero a scuola che stavo giocando a calcio e un signore mi ha chiesto se volessi partecipare un film. Poi sono andato in una stazione televisiva in Ghana e lì abbiamo fatto il casting. Dopo aver finito ogni scena andavo nella mia camera e arrivava qualcuno della produzione con cui facevo le prove. Più di tutto però ricordo di aver camminato al lungo nella giungla con una gran paura dei serpenti (ride), ero disarmato! Ho avuto anche paura di Idris Elba (che nel film interpreta il ruolo del Comandante) era così imponente con delle mani enormi!
F. Abraham ha improvvisato molto, ha la capacità di rappresentare facilmente i propri sentimenti. Ho visionato i provini di circa 600 ragazzini. Volevamo fare un workshop con gli attori prima delle riprese ma non c’è stato tempo. Abbiamo lavorato insieme in un mese basandoci molto sull’improvvisazione. Ci voleva una grossa energia per partecipare a questo film, e ho fatto ai ragazzi molte domande.
L’iniziazione del bambino alla guerra ricorda molto ciò che accade con l’Isis.
F. Al momento delle riprese L’Isis aveva appena cominciato a colonizzare le prime pagine dei giornali. È un fenomeno pericoloso come tutti quelli che vanno ad influenzare le menti dei più giovani. Per l’iniziazione del film abbiamo però seguito i rituali delle tribù, l’indottrinamento spirituale. Ho cercato di lasciar fuori la religione per non creare conflitto nella rappresentazione
Come si lavora sapendo che il film avrà una distribuzione particolare visto che potrà essere visto anche sulla piattaforma Netflix?
C.F. Netflix è entrata in scena nella fase successiva il montaggio quindi non ha avuto nessuna influenza. I meccanismi distributivi cambiano continuamente, è difficile proporre un film al giorno d’oggi. Far andare la gente al cinema è difficile tranne non si tratti di pellicole fortemente pubblicizzate.
Come ha descritto ad Abraham le scene più violente?
C.F. Il set è un luogo particolare dove è difficile vivere le sensazioni come le percepiamo nella realtà. Le azioni vengono frammentate per essere ricostruite. Non c’è sangue sul set, e non c’è l’emotività che può avere lo spettatore, anzi, paradossalmente alcune sequenze drammatiche fanno sorridere durante la loro esecuzione. La scena sarà poi violenta per chi la vedrà.
È voluto il fascino che emana la figura del comandante?
C.F. Il personaggio del comandante nel romanzo è un po’ oscuro. Non viene raccontato il suo backround, non è perfettamente definito. Nella dimensione letteraria questo funziona molto bene, ma nella transizione verso il film ho cercato di dargli una storia e una direzione. Ho preso spunto da un uomo conosciuto ad Haiti. Volevo che fosse un leader di quella terra, lo strumento perfetto da usare sul territorio.
Crede che questo film possa essere un aiuto?
C- F. Credo che i film abbiano il potere di creare dei sentimenti positivi che influenzino le sorti del mondo rendendolo un post più civile. Per quanto riguarda i bambini soldato, la drammatica realtà è che sono un’industria, diventa un lavoro: i ragazzi del Niger per esempio sono pagati 400 dollari l’anno. È una popolazione di adulti disoccupati, è una questione grave e servirebbe eliminare i conflitti prima di tutto.
Fuori Concorso Spothlight di Tom McCarthy sulla vera storia dell’indagine portata avanti dal Boston Globe a proposito di abusi sessuali da parte di preti pedofili.
Il regista e sceneggiatore Tom McCarthy ha incontrato la stampa insieme agli interpreti Stanley Tucci e Mark Ruffalo.
Il film si è in qualche modo ispirato al cinema tradizionale sul giornalismo americano sul genere di Tutti gli uomini del presidente?
Tom McCarthy: Qualsiasi film che ha a che fare col giornalismo può essere una fonte di ispirazione, ma è bene cercare di ignorare queste suggestioni.
Fra i miei modelli c’è comunque Sidney Lumet, un vero e proprio mentore con i suoi film e la sua onestà. Io e il mio team abbiamo però lasciato che fosse la storia a indicarci la nostra via.
A Mark Ruffalo: Tu e Stanley avete parlato con le persone che avete interpretato?
Mark Ruffalo Non ho avuto purtroppo tempo di conoscere intimamente la persona della quale ho interpretato il ruolo, ma ho cercato comunque di accostarmi alla vicenda con rispetto.
Stenaley Tucci: Non ho incontrato la persona che rappresento nel film anche perché mi hanno consigliato di non farlo per via della sua personalità troppo complessa. L’ho studiato attraverso il materiale filmico di repertorio
Nel film si parla del tradimento della fede, come mai questa scelta?
Paul McCarthy: Era l’argomento della storia che volevo raccontato. Parlando con alcuni sopravvissuti all’abuso sessuale da parte di sacerdoti è emerso questo doppio tradimento: l’abuso fisico e la violenza spirituale. Queste persone sentivano di non avere più nessuno con cui confidarsi, e spesso per la religione contava moltissimo nelle loro vite. Molti hanno avuto grosse difficoltà: storie di droga e abuso di alcool.
Quali saranno per lei le reazioni al film da parte del mondo cattolico?
Stanley Tucci: Personalmente credo che Papa Francesco sia stato straordinario nel portare la chiesa cattolica verso questa nuova direzione. Lui ha potere di cambiare la situazione.
Paul McCarthy: Condivido questi sentimenti di Stanely sul nuovo Papa, ma dopo aver realizzato questo film mi sento un po’ più pessimista. Quello che accadrà è ancora da vedersi. Personalmente non mi aspetto nessuna reazione, sono franco, ma non credo ce ne saranno. Non è un attacco contro la chiesa, ma un film che deve essere condiviso dalla comunità
Questo è un film “vecchia Hollywood” che parla di come scrivere una storia, di un giornalismo che non c’è più.
Paul McCarthy: L’industria del giornalismo negli Stati Uniti è stata decimata dai tagli. Il film sottolinea l’impatto che può avere un giornalismo di indagine nella società. Serve da esempio per un’industria che ha subito riduzioni straordinarie.
Una parte della bellezza del film sta nella devozione al lavoro dei personaggi.
Paul McCarthy: Quando ho letto per la prima volta la storia ho voluto cercare i veri reporter di quei fatti. Sono loro che ci hanno permesso di arrivare ai personaggi che abbiamo creato. Ho trascorso poi molto tempo con gli attori, che sono stati una scelta immediata, ho subito pensato che fossero le persone giuste con cui collaborare sia individualmente che collettivamente. Ammiro l’attivismo di Mark, sono sopraffatto dal rispetto per lui e penso che fosse l’attore più adatto a questo ruolo.
Cosa pensa dello stato dei media americani al giorno d’oggi?
Paul McCarthy: Io sono ottimista, non sulle notizie ma sull’informazione. Molti si sono spostati nel mondo digitale, l’informazione si aggrega molto meglio e siamo all’inizio di un nuovo modello. Quello che la gente vuole nel giornalismo investigativo è la libertà di informazione. Quello che stiamo perdendo invece, e che volevo sottolineare col film, è l’importanza del giornalismo investigativo a livello locale: giornalisti che si infilino gli stivali per camminare nel fango, gli inviati sul territorio.
Quale è stata la reazione della comunità cattolica di Boston?
Paul McCarthy: Non lo so, il mio lavoro è stato fare il film e il resto si vedrà una volta che uscirà. Credo che la maggior parte della città di Boston ci abbia sostenuto, non c’era grosso margine per negare gli eventi. Boston ha una splendida architettura e ci sono moltissime chiese, se ne ha il senso del potere fisico. Nel 2013 molte chiese sono state però chiuse per pagare i danni alle vittime degli abusi.
Mark Ruffalo: A Boston, come in Irlanda e in molti altri paesi, le chiese non sono state chiuse solo per pagare i danni alle vittime, ma anche perché venivano poco frequentate dopo ciò che era venuto alla luce. Io spero che il Vaticano, anche grazie a questo film, si schieri dalla parte delle vittime che hanno perso la fede. Potrebbe essere l’occasione di curare le ferite che la chiesa stessa ha subito.