Tante voci, tanti punti di vista e una sola famiglia con una storia da raccontare nell’intenso documentario di Marcia Tambutti Allende che si è aggiudicato il premio come Miglior Documentario all’ultimo Festival di Cannes.
Partito dalla volontà di ricostruire il patrimonio di ricordi, foto e testimonianze andato perduto dopo il golpe dell’11 settembre 1973, da donare all’adorata nonna Tencha, Allende, mi abuelo Allende non vuole raccontare solo la cronaca familiare di Salvador Allende, ma piuttosto rimettere in ordine i pezzi di un puzzle di una storia ancora dolorosa da ricordare.
È proprio da una conversazione con la nonna (Hortensia Bussi Allende) che Marcia, figlia di Isabel, l’attuale presidentessa del Senato in Cile, inizia a dipanare l’intricata matassa che ha riguardato il destino della sua famiglia dopo il golpe. “Sono ricordi carichi di emozioni e di ansia” racconta Tencha, piuttosto restia “dopo il 1973 ho perso mio marito e mia figlia”.
Beatriz “Tati” Allende una figura tragica e solenne, la figlia rivoluzionaria di Allende che proprio come il padre aveva studiato medicina e che a lui rimase vicina come collaboratrice fino alla fine, si tolse la vita quattro anni dopo il colpo di stato del ’73 mentre era in esilio con la famiglia e i due figli a Cuba.
È proprio il figlio di Tati, Alejandro Salvador, a insistere sulla necessità di ricostruire la storia “è una storia bella, vera, che è finita tragicamente” per custodirla e insieme condividerla con il popolo cileno.
Il conflitto tra la seconda e la terza generazione degli Allende è uno degli elementi che emerge più prepotentemente nel documentario: se per i primi ricordare è penoso, per i più giovani è necessario. “Ho conosciuto mio nonno attraverso i poster di propaganda che ne ritraevano l’immagine, come qualsiasi altro cittadino cileno della mia generazione. Non sono mai riuscita neanche a immaginare la sua figura intera” racconta la stessa Marcia.
Salvador “Chicho” Allende, gli ideali, la lotta, l’amore per la sua gente e la triste fine con il suicidio, confermato dopo la recente riesumazione del corpo, a seguito del golpe. I membri della famiglia parlano con intimità mista a reverenza di questo leader che credeva nell’unità e nel cambiamento, che amava la vita, la sua e quella degli altri.
L’indagine gentile e ostinata di Marcia continua per tutta la durata del film e riesce a ricostruire un affascinate affresco iconografico che sembrava essere perduto in cui Salvador Allende emerge privatamente come patriarca amato e rispettato, dolce e spiritoso e pubblicamente come una figura quasi mistica che il popolo sentiva vicina.