di Gabriele Rizza
Ci si andava in genere la domenica pomeriggio. Dopo pranzo. Se non giocava la Fiorentina. Ci infilavamo alle tre e uscivamo alle cinque, o alle sei. Dipendeva dal film, dai posti, dalla compagnia di amici, dal meteo che allora si chiamava tempo, e da quando arrivavi. Spesso a spettacolo iniziato e dovevi rivederti l’inizio.
Ci si andava sì per passare il tempo, ma anche (davvero) per andare al cinema. Indiani e cowboy, corsari e avventurieri, bucanieri e moschettieri, in pace e in guerra, Sodoma e Gomorra, peplum e spaghetti, Roma e Cartagine, Ursus e Maciste, con l’aggiunta di qualche brivido proibito vietato ai minori di quattordici per le gambe di Chelo Alonso, le gonne al vento e il petto in fuori che in quei corpetti da schiava o da regina ci stava stretto stretto, il petto. Si andava al Cristallo di piazza Beccaria, nello slargo una volta scenografico, i così detti Pratoni della Zecca aperti sul Piazzale e San Miniato, un parterre lasciato libero dal Poggi e incastonato fra i boulevard con ambizioni da parigina grandeur, poi ben presto colmato di anonimo cemento da caserma nei secoli fedele (la Baldisserra), uno slargo dove di fronte o di fianco sorgeva l’Alhambra, spettacolare complesso per il tempo libero, cinema/teatro/giardino/caffè, dall’arabescante fascino moresco, immerso nel verde, variabile kitsch per il pubblico divertissement, progettato nel 1920 da Adolfo Coppedè, poi variamente modificato e aggiornato nei decenni a venire, fino al 1961 quando, senza riguardi, tutto d’un fiato, fu fatto fuori per fare spazio alla nuova sede della Nazione di Pierluigi Spadolini (rotative comprese), e oggetto intorno al ’68 di spedizioni punitive, di sanpietrini e di vetri rotti per vendicare il popolo vietnamita, vittima dell’aggressione imperialista, al grido «Giap Giap Ho Chi Min, viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung».
E via di corsa con i manganelli dei celerini sul collo come il fiato dei compagni. Si arrivava allora al Cristallo di piazza Beccaria e il cinema ci accoglieva nella corte interna, sconnessa e traballante, prima dei gradini e della cassa (posti in piedi, faceva lo stesso, e fumo libero da camera a gas) uno sciacquettio proveniente dal basso a sinistra. Un vago frusciar d’onde, qualche grida e un alone di cloro. Perché al Cristallo c’era la piscina. L’unica allora coperta di Firenze (dopo sarebbe venuta quella dello scientifico Leonardo da Vinci). Così il film diventava (chissà!) più fluido e il caldo più tollerabile. E c’era pure il palcoscenico del vecchio Varietà dove un giorno di primavera (eravamo già verso gli anni Settanta) sbarcò d’incanto, fra una cronaca rosa e una pagina nera, Tamara Baroni, mito ghiotto di provincia Signore & Signori, l’onda gialla del parmigiano, ruspante icona sexy in odore di bmovie. All’ingresso sulle scale campeggiava la sua immagine ammiccante, sagomata in cartone a grandezza naturale. Qualcuno nottetempo la trafugò. E dopo pensammo ad Antoine Doinel/Jean Pierre Léaud con Harriet Anderson/Monica e il desiderio dalle spalle nude. Amori di Nouvelle Vague. Ma qualcuno ci precedette. Non sapevamo allora (o forse sì, ma poco importa) che il Cristallo, nel dopoguerra, prima di diventare tale, quando ancora si chiamava Radar (un cinema palindromo! che spettacolo), era stato la Casa del Balilla o della Gil (Gioventù italiana del littorio), tirato su tra il 1936 e il 1938 (il progetto era di Aurelio Cetica) come bell’esempio di architettura razionale polifunzionale anni Trenta. Il postbellico furore ideologico lo condannò al suolo nel 1975. Al suo posto sorse l’Archivio di Stato. Andò peggio a Nello Baroni, grande progettista di spazi per spettacoli, già sodale del Gruppo Toscano, quello della Stazione di Santa Maria Novella. Senza pensarci troppo gli amministratori cittadini gli cancellarono prima l’oceanico Apollo di via Nazionale (nato Rex nel 1937, la terza sala d’Italia per numero di posti) chiuso dall’86, ancora in attesa di riconversioni già più volte annunciate, poi l’ondivago Stadio di viale Manfredo Fanti, schermo acceso dal ’51 a metà anni Novanta, ora appartamenti dopo breve stagione discotecara, infine il fantastico Capitol in Piazza del Grano di fronte o dietro gli Uffizi, sorto nel 1957 e morto nel 2003 a causa di insipienze e vanificato da ignoranze, sebbene in quella ubicazione insieme alla Loggia di Izozaki, poteva essere una magnifica soluzione, scenico-funzionale, di caratura europea.