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Slayer

di SoloMacello

kerry_kingLe luci pulsano a velocità vertiginosa, seguendo i ritmi forsennati del batterista che pare indemoniato; le chitarre si alternano tra urla lancinanti e plettrate velocissime fino a quando tutto si ferma e parte il grido “do you wanna diiiieeeeeee?” prima che ricominci l’inferno sonoro.
La domanda “volete morire?” non è poi tanto retorica: gli Slayer non giocano sul filo, vanno direttamente alle estreme conseguenze. Ti chiedono enfaticamente se vuoi morire, ma ti hanno già portato dritto dall’altra parte. Solo che invece di coretti angelici e contemplazioni estatiche ci sono torture, dolore e sangue. Parecchio sangue. Sangue che piove da ogni parte, come recita il loro brano più emblematico (‘Raining Blood’, appunto). È questo l’universo in cui si muovono, che va da riferimenti più o meno diretti alla seconda guerra mondiale e Auschwitz (‘Angel of Death’), agli attacchi diretti alla religione, perché in fondo ‘dio ci odia tutti’, come recita uno dei loro album più recenti. Un immaginario che si traduce in testi crudi e un’immagine tutt’altro che tranquillizzante e che non ha mancato di attirare le accuse più disparate, dal satanismo al nazismo passando per tutto quello che c’è in mezzo; dall’altro lato però ha saputo creare legioni di fan devoti e fedeli, estremi come i propri idoli: sono diventate celebri le foto di alcuni di alcuni di loro arrivati ad incidersi il logo del gruppo sulla pelle.
Musicalmente la strada seguita va nella stessa direzione perché non si può certo parlare di violenza e morte con un sottofondo musicale pop. Può apparire scontato, al giorno d’oggi, ma nella seconda metà degli anni 80 nessuno aveva mai osato avventurarsi in tali territori, abbinando un suono che scardinava ogni convenzione e spingeva i limiti un po’ più in là, anche all’interno di un genere già considerato estremo come il thrash metal. Nessuno suonava alla loro velocità, nessuno univa violenza dei riff e assoli dissonanti, nessuno prima aveva mai preso le atmosfere e i giri di chitarra neri come la pece dei Black Sabbath portandoli alle estreme conseguenze. Non esistono pezzi rassicuranti nel loro repertorio e men che meno lenti: le ballad non sono contemplate e anche dopo oltre trent’anni la band resta fedele a sé stessa anche su questo punto. Pazienza se Tom Araya, il cantante dalle origini cilene, fuori dal palco sia la persona più pacifica e rilassata del pianeta e anche durante gli show ora si conceda addirittura qualche sorriso verso il pubblico, la sostanza non cambia. Non è da escludere che sia merito anche di questa loro coerenza totale se sono diventati delle icone viventi e hanno finito per influenzare in maniera profonda una serie infinita di gruppi negli ultimi decenni.
Anche nella realtà gli Slayer sembrano attirare le forze più oscure: è di pochi giorni fa la notizia della morte improvvisa di Jeff Hanneman, storico chitarrista della band e autore di molti dei suoi brani più celebri. Hannemann era fermo da due anni in seguito a una fascite necrotizzante al braccio, causata dal morso di un ragno, che gli impediva di suonare ed esibirsi ed è stato ucciso da una cirrosi epatica, probabilmente dovuta ad abusi di altro tipo. Gli Slayer non si sono mai fermati, comunque, e hanno continuato a portare in giro per il mondo il loro verbo, guidati dai due membri originari rimanenti. E torneranno anche in Italia (a Firenze il 18 giugno alla Obihall) per ribadire il concetto. E intanto la scomparsa di Hanneman viene celebrata dagli appassionati ad ogni latitudine (anche da noi, si veda per esempio il Solomacello Fest del prossimo 26 giugno a Milano, interamente dedicato al chitarrista scomparso): perché gli Slayer sono diventati un’icona, un’istituzione e senza di loro non esisterebbero gran parte delle band estreme attuali – e il concetto stesso di ‘musica estrema’ avrebbe probabilmente tutt’altro significato.

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