di caterina liverani
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È molto probabile che qualcuno molto intellettuale e raffinato affermi (con un po’ di spocchia) che il miglior Tarantino è quello di My best friend’s birthday unico frammento rimasto di un progetto più lungo al quale aveva cominciato a lavorare nell’86 e che è andato in parte distrutto.
Le iene (1991) come anche Pulp Fiction (1994) di solito mettono tutti d’accordo. Difficile, quali che siano i propri gusti, non essere rimasti profondamente colpiti da tanto buon cinema per non ospitare in posto speciale della nostra memoria culturale due opere così preziose che oltre a imporre un nuovo tipo di cinematografia hanno sicuramente contribuito a definire un nuovo spettatore, con le cui esigenze e aspettative sempre più alte, tutti gli autori venuti dopo si sono dovuti misurare.
Con Jackie Brown (1997) le cose si complicano; brillante adattamento letterario poco apprezzato alla sua uscita, incontra in anni più recenti una numerosa schiera di revisionisti che ne riconoscono il coraggio di una storia fuori da certi schemi che sembravano consolidati.
Amati dai cinefili più tosti e adorati da tutte le fanciulle in cerca di vendetta Kill Bill volumi I e II si stagliano nell’immaginario collettivo come una dichiarazione d’amore non ad un solo genere, ma ad un intero universo cinematografico rendendo Tarantino in grado di piegare lentamente e con delicatezza i gusti dei suoi fan stimolandone sempre la curiosità verso universi – le arti marziali per esempio – magari sconosciuti o solo marginalmente frequentati.
Grindhouse Deathproof (2007) è un film notevole – di norma mal tollerato dai puristi- che segna, oltre che un ennesimo omaggio ad un genere in passato sottovalutato, una profonda e sensibile analisi del nostro ragazzaccio cresciuto ad hamburger e videocassette, dell’altra metà del cielo composta in questo caso da un esercito di pupe sexy da mozzare il fiato, con lingua lunga e il piede veloce.
E quando nel 2009 Quentin ci ha consegnato Bastardi senza gloria, stupefacente ed epica rilettura della storia recente piegata ad audaci e gustosi giochi narrativi, il gap fra i nostalgici della prima maniera e nuovi seguaci si è allargato ulteriormente alimentando un dibattito che si è protratto tra gli appassionati fino ad oggi.
Non c’è nessun dubbio che quest’anno il vero Natale dei cinefili sia stato il 17 gennaio, data in cui nelle sale italiane è finalmente uscito Django Unchained, monumentale e glorioso omaggio al western; e mentre le biglietterie di multisala e cinema di quartiere sono prese d’assalto e chi non l’ha ancora fatto cerca disperatamente di ritagliarsi 165 minuti, accanto ai devoti e agli scettici si va formando una nuova generazione di giovani tarantiniani. Quelli che i primi film del nostro li hanno visti a casa, con un dvd del babbo, per poi recuperare velocemente tutta la filmografia. Quelli hanno vissuto per la prima volta con Django l’emozione dell’attesa di un nuovo grande film di Quentin Tarantino da vedere al cinema.
Forse è con i loro occhi che dovremmo riuscire a rivedere l’opera di questo corpulento adolescente mai cresciuto che ha saputo tramutare i suoi e i nostri sogni in pellicola e luce, in spari e fiumi di rosso, in battute rozze ma sagaci dietro le quali si celano sempre inconfutabili verità.